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CUCINA ITALIANA_2021

바다에서 식탁에 올라온 말린 대구 이야기,La storia del baccala



 www.tsori.net


IL BACCALA' DAL MARE ALLA TAVOLA/La storia del baccala
-바다에서 식탁에 올라온 말린 대구 이야기-



어느 수산시장(pescheria)의 진열장에 빼곡하게 진열된 물건의 정체는 무엇일까...?


녀석들은 포스트 분문에 등장할 바깔라( BACCALA', 말린 대구)라는 생선이다. 살이 희고 담백하고 고소하며 크기도 꽤 크고 먹을 수 있는 부위가 상당히 많은 녀석이다. 유럽에서 매우 유명한 어종으로 유럽인들의 식탁에서 빼놓을 수 없는 생선이자 유럽인들을 지탱시켜준 생선이랄까. 한국에서는 1980년대 까지만 해도 연 4~5천톤의 어획량을 기록했으나, 1990년대 대서양 일대와 마찬가지로 무분별한 남획으로 인해 300~600톤까지 어획량이 줄어들었다.1990년대 중반에는 큰대구 한마리 30여만원을 호가할 정도로 몸값이 비쌌던 적도 있다. 

<IMAGE http://ericademane.com/2010/12/18/baccala-mantecato-for-christmas-eve/>


다행히 인공 방류 사업에 힘입어 2001년부터 계속 어획량이 늘더니, 매년 제철만 되면 감당이 안 될 정도로 엄청난 어획량을 자랑하고 있단다. 원래 대구는 비교적 번식력도 좋고 잘 자라는 생선이지만 사람들이 그 이상으로 잡아대서 씨를 말렸을 뿐이다. 대구가 다시 식탁으로 돌어온 것일까. 2010년 어획량이 1만톤 수준이므로 어획량 회복에 성공했다고 볼 수 있다. 우리도 대구에 열광(?)한 한 민족이었다. 


한류성 어종인 대구는 금년초 (지난 1월 현재), ㎏당 대구 위탁판매 가격은 2,885원으로 전년 동기(3,001원) 대비 5%가량 떨어졌다는 소식이다. 최근 이상기온으로 서해안에 냉수대가 형성된 것이 그 원인으로 꼽힌다. 산지 위탁판매장 중 대구를 가장 많이 거래한 곳은 서해에 인접한 충남 보령 수협이었다. 이곳에서 거래한 대구 물량은 1,143톤으로 2010년 12월 119톤에 비해 10배가량 급증했다는 것.값이 떨어지면서 대구 판매는 늘어나고 있다. L마트에서 지난달 대구 매출은 전년 동기 대비 63.7% 증가할 정도였다. 


한국과 유럽 혹은 이탈리아 등 세계인들에게 대구는 그야말로 귀한 녀석이었다. 우리나라에서는 대구 요리법이 그다지 많지않은 편이지만 대구에 열광한 포르투갈만 해도 1000여가지가 넘을 정도의 요리법이 존재한다고 하고 이탈리아 나폴리만 해도 수백가지의 요리법이 있다고 한다. 또 바깔라의 고장인 이탈리아 동북부 비첸짜 지역의 요리법까지 더하고 세계인들의 대구요리법을 합하면 무궁무진한 요리법이 존재하는 것. 


잡고 또 잡고, 먹고 또 먹고, 말려 먹고, 지져 먹고, 구워 먹고, 조려 먹는 등 숱한 요리법으로 여전히 우리 식탁에 오르는 대구. 우리는 주로 대구탕이나 대구찜 혹은 뽈찜이라는 이름으로 비싼값에 팔린다. 대구 바깔라의 역사 혹은 이야기를 전편(이탈리아 지역별 요리 3편,말린 대구 요리/Il baccala alla vicentina)에 이어 다시 담아 봤다. 이탈리아 요리 혹은 이탈리아어를 공부하는 분들에게 재밌는 자료가 될 것 같기도 하다. 내가 꿈꾸는 그곳 번역본 보기




LA SUA STORIA...


Il baccalà è merluzzo conservato sotto sale e in seguito essiccato naturalmente o artificialmente. Il baccalà si differenzia dallo stoccafisso che invece richiede solo un lungo periodo di essiccamento senza aggiunta di sale. Il baccalà è un alimento ricco di proteine ad elevato valore nutrizionale, ma con poche calorie.



L' origine del nome baccalà...


Avete mai assaggiato il gadus morhua, pesce della famiglia dei Gadidi, ordine dei Teleostei, sottordine degli Anacantini? Non affrettatevi a dire no, oppure boh. E’ quasi certo che lo avete mangiato più di una volta, perché dietro questo nome complicato si nasconde il comunissimo merluzzo. E’ possibile invece che non lo abbiate mai visto vivo, e forse neppure intero, sul banco di una pescheria. Allora eccone l’identikit: è verdastro, con delle macchiette gialle sul dorso e una linea laterale bianca lungo tutto il corpo. 




Gadus morhua-대서양산 대구의 라틴어 이름. Gadus macrocephalus (대구의 학명)

Il merluzzo nordico o merluzzo bianco (Gadus morhua), (assume anche il nome di baccalà se conservato sotto sale, o stoccafissose essiccato) è un pesce d'acqua salata, appartenente alla famiglia dei Gadidae.<DA https://it.wikipedia.org/wiki/Gadus_morhua>



Il ventre è bruno. Lunghezza: fino al metro e mezzo. Peso, fino a 50 kg. Finchè sta in acqua, si chiama merluzzo. Quando viene spinto ad uscirne dalle sottili arti degli uomini: quando cioè viene pescato con appetitose esche a base di calamari o di altri pesci, cambia due cose: lo stato esistenziale (da vivo a morto), e il nome. Perde quello di prima (merluzzo), e ne prende un altro. 


  Anzi due: a seconda di come viene trattato. Se viene subito pulito, messo in un barile e coperto di sale, è chiamato baccalà. Dalla parola fiamminga kabeljaw, che vuol dire bastone di pesce. Il sale serve per tirar fuori dalle sue cellule l’acqua: quindi per essiccarlo, allo scopo di conservarlo a lungo.Il baccalà è insomma il merluzzo pulito, deliscato, salato e imbarilato. 


Se invece, dopo la pesca, il merluzzo viene lasciato ad essiccare all’aria fredda, diventa stoccafisso: da stock, legno, e fish, pesce. Alias bastone di legno, chè tale appare per la sua durezza. Qualcuno sostiene che la parola provenga dal norvegese Stockfish: pesce da stoccare: da immagazzinare. Dove lo si trova? Il territorio più ricco di merluzzi è il cosiddetto “Grand Bank”: una piattaforma continentale di ben 3.500 kmq. 


situata nell’Atlantico Settentrionale, al largo di Terranova e delle coste del Labrador. In quelle acque poco profonde la tiepida corrente del golfo si incontra con l’acqua fredda del Labrador, dando vita a una splendida piscina particolarmente gradita ad alcune specie di pesci di cui i merluzzi sono ghiotti. Di questo giacimento di merluzzi diede notizia per primo il grande navigatore Giovanni Caboto, che nel 1497, cercando una rotta più settentrionale di quella seguita da Colombo, ci finì proprio in mezzo. 




Giovanni Caboto

Giovanni Caboto (Castiglione Chiavarese o Gaeta, 1450  Inghilterra, 1498) è stato un navigatore ed esploratore italiano, famoso per aver continuato l'opera di Cristoforo Colombo cominciando la serie di grandi viaggi di scoperta verso il nord-ovest, in particolare per aver scoperto il Canada il 24 giugno 1497

<DA https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Caboto>



La pesca indiscriminata di merluzzi che si è fatta per secoli ha oggi provocato un tale assottigliamento dei branchi e dei banchi, da spingere da qualche anno i canadesi a vietare la pesca nelle proprie acque. Sono perciò tornati in auge i giacimenti di merluzzo presenti al largo dell’Islanda. Nel Mediterraneo si pesca invece il nasello: una varietà di merluzzo meno pregiata, che non ha mai l’onore di diventare baccalà, e neppure stoccafisso: si mangia fresco, o congelato.


Perché il merluzzo è così importante? Economico, abbondante (ogni femmina depone tre milioni di uova per volta!), nutriente, dieteticamente prezioso (i pochi grassi che ha sono grassi insaturi, che invece di far male fanno bene), non deperibile, facilmente trasportabile: basterebbero queste qualità per giustificare il fatto che, per assicurarsi il mercato del merluzzo, dei paesi civili si sono presi per secoli (e continuano a farlo) a pesci in faccia. 


Ma c’è di più: il merluzzo è l’omologo acquatico del maiale, perché di lui non si butta via niente. In Norvegia, patria dei Vichinghi inventori dello stoccafisso, la testa del merluzzo viene bollita. Anche da quelle parti, i genitori sanno che per i loro figli le lingue sono importanti: è per questo che affidano a loro il recupero della lingua dei merluzzi, sempre che abbiano finito i compiti. 




<DA http://ericademane.com/2011/12/15/baccala-mantecato-for-la-vigilia/>



La lingua è infatti considerata una vera ghiottoneria, mentre le guance vengono fritte in pastella.Le uova di merluzzo, lessate nella loro sacca, si mangiano affettate: il fegato, cotto in salsa. L’olio di fegato di merluzzo lo si prende perché contiene molte vitamine. Per buttarlo giù, per via dell’odore (e del sapore) nauseante, ci vuole comunque del fegato. 


Lo stomaco del merluzzo viene spedito in Giappone: là ci infilano dentro degli altri pesci, e poi lo usano per il sushi. Pochi sanno che lo stomaco del merluzzo viene cucinato anche in Calabria e in Sicilia. In Islanda, del merluzzo non buttavano via neppure la pelle: sostituiva il pane, che a quelle latitudini, non potendosi coltivare cereali, non c’era (non c’è neppure adesso, ma viene importato). 


Fritta o arrostita, e spalmata di burro, la pelle del merluzzo era la merenda preferita dei bambini islandesi, povere anime. Conciata come il cuoio, la pelle veniva usata pure per confezionare borse. Cane non mangia cane, ma pesce mangia pesce: l’intestino macinato del merluzzo viene dato in pasto ai salmoni d’allevamento. 


Oggi il merluzzo è l’ingrediente base per il famoso “fish and chips”, che ancora si consuma in Inghilterra, per i fishburgers e per i bastoncini di pesce, per i quali spesso viene impiegato il merlano o eglefino, un merluzzo dell’Oceano Pacifico: una varietà meno pregiata rispetto al gadus morhua proveniente dall’Atlantico.




<DA http://revolutionarypie.com/2013/11/11/salt-cod/>



La storia del baccalà...



I migliori testimonials del merluzzo sono i Vichinghi, i grandi navigatori provenienti dal nord della Norvegia. Dalle loro parti, al largo delle isole Lofoten, di merluzzi ce n’erano a iosa: i Vichinghi li pescavano, e li facevano essiccare all’aria aperta. Ne veniva fuori un alimento perfetto per le loro esigenze: lo stoccafisso. Nutriente, leggero (poca acqua, poco peso) di lunga conservazione (perché disidratato, come le mummie). Per i loro interminabili viaggi per mare, verso la Groenlandia, l’America, non c’era di meglio. 

Un bel giorno però i Vichinghi persero il monopolio della pesca del merluzzo per colpa delle balene. Le popolazioni basche del Golfo di Guascogna (tra la Spagna settentrionale e la Francia) davano loro la caccia, e in effetti le cacciarono da lì: scappando verso nord, con i baschi alle calcagna, ben decisi a non perdersi quelle montagne di risorse alimentari, le balene si portarono nell’Atlantico settentrionale, fin nel mezzo dei Grand Banks: dei banchi di merluzzo così fitti, che per catturarli bastava affondarci dentro le mani. 

Una volta scoperti questi giacimenti di merluzzo, i baschi ci tornavano tutte le volte: ma per conservarlo, invece di esporlo all’aria (che in Spagna è meno fredda che in Norvegia!) all’uso dei Vichinghi, lo mettevano sotto sale: abitudine che avevano preso con le balene. Nasceva così il baccalà. I vichinghi impararono dai baschi questo nuovo sistema di conservazione del merluzzo, e ne estesero l’impiego: oltre che come cibo, sulle loro navi il baccalà fungeva anche da barometro. 

Dopo averlo messo sotto sale, lo appendevano a bordo con delle corde. Quando il baccalà cominciava a gocciolare, voleva dire che era in arrivo una tempesta: la maggiore umidità dell’aria faceva infatti sciogliere il sale. Oggi i barometri saranno magari più sensibili, ma non sono commestibili come quelli di una volta. 

 I Vichinghi portarono il baccalà in molte parti del mondo, ma solo quando finì in mano agli americani la b di baccalà si coniugò davvero con la b bi business. Nel 1620 i Pilgrim Fathers, i Padri Pellegrini, protestanti in fuga dall’Inghilterra, sbarcarono con la Mayflower su di un promontorio del nuovo mondo che aveva un nome profetico: Cape Cod, che non vuol dire altro che “Capo Merluzzo”. Questo nome ci fa capire di quale pesce fossero pieni quei mari. Non capendo molto di agricoltura, i Padri Pellegrini si diedero alla pesca. 


La cosa dovette funzionare, se già pochi decenni più tardi le navi degli “americani” partivano dal New England stivate e stipate di baccalà, dirette ai Caraibi, a Capo Verde e alle Canarie, con destinazione finale Portogallo. Il baccalà veniva scambiato con prodotti coloniali (zucchero, melassa, ecc.) e anche con schiavi, che venivano trasportati in America per lavorare nelle piantagioni. 

Arrivati là, gli schiavi venivano nutriti con la stessa moneta con cui erano stati comprati: il baccalà, appunto. Il desiderio degli Inglesi di inserirsi in questo lucroso commercio provocava continui scontri fra le navi di Sua Maestà Britannica e gli schooner, le veloci barche americane impiegate per la pesca del merluzzo, che per meglio difendersi si erano dotate di cannoni. 

La guerra del baccalà contribuì insomma a inasprire il clima già teso tra l’Inghilterra e la sua ex colonia d’oltremare, consolidando quell’ostilità che avrebbe condotto, nel 1776, alla dichiarazione d’indipendenza americana. Sulle banconote da un dollaro, oltre alla faccia di Lincoln dovrebbe perciò comparire un bel merluzzo, magari di profilo. Come quello tuttora presente nello stemma municipale di Boston. 



Se non una banconota, il baccalà meriterebbe per lo meno un francobollo commemorativo: nei secoli ha salvato la vita a tanta gente, che altrimenti sarebbe morta letteralmente di fame. Ancora nell’ottocento, la classe operaia inglese tirava avanti a forza di “fish and chips”, un binomio in cui il fish era (ed è ancora) il merluzzo, che si coniugava con le chips (patate) per il semplice fatto di essere cheap: economico. 

Il mercato inglese assorbe 170.000 tonnellate di baccalà all’anno, ed è al primo posto nel mondo. Sarà per questo che gli inglesi, quando si tratta di baccalà, non si rivelano mai dolci di sale. Per citare soltanto degli episodi recenti, nel 1973 fregate e cannoniere inglesi ed islandesi si sono fronteggiate a muso duro - e a colpi d’artiglieria - per il controllo dei grossi banchi di merluzzo che si trovano nei mari tra i due paesi. 

Nel '94 i britannici hanno accusato i pescherecci spagnoli di eccessiva intraprendenza nella pesca del merluzzo nelle acque irlandesi. Insomma, è dal 1600 che gli inglesi sul merluzzo tengono gli occhi aperti. Fanno bene: chi dorme non piglia chi piglia pesci. Ovviamente, parliamo dei pregiatissimi merluzzi.




Napoli e il baccalà...



“Femmene, cane e baccalà, p’essere bbone s’anna mazzià”. La necessità di “mazziare”, di percuotere con una mazza il proprio cane e/o la propria moglie, per ottenerne il massimo in termini di rettitudine e di obbedienza: per renderli malleabili, nelle case napoletane si applica ad un terzo soggetto, non meno importante: il baccalà. A Napoli quel che è bello (sole, cielo e mare) non costa niente. E quello che costa (poco o) niente, è bello. 

E buono. Un esempio: il baccalà. Per il basso prezzo, il baccalà e lo stoccafisso: due eredi del merluzzo che hanno superato il maestro, erano un tempo considerati “il pesce dei poveri”, un po’ come il pesce azzurro. Che fosse per amore autentico, o semplicemente per la capacità di amare quel che ci si può permettere (uno dei segreti della felicità), di baccalà a Napoli se ne mangiava davvero tanto, e tutto l’anno; dunque non solo a Natale. 

Poi il consumo si ridusse del 70%, a favore della carne, status symbol di un raggiunto - o desiderato: dunque, in entrambi i casi, da ostentare - benessere. Baccalà e stock sono recentemente tornati a galla: la moderna scienza dell’alimentazione ha conferito dignità ad un comportamento alimentare che i napoletani avevano adottato per necessità. 

Il risultato del match con la carne, che sembrava perduto, si è infatti praticamente ribaltato: pari per le proteine (18% per tutt’e due), lieve vantaggio del baccalà per gli zuccheri (ne contiene di meno), e nuovo pari per quanto riguarda i grassi (0,3% per tutti e due). Ma quest’ultimo è un pareggio fittizio: i grassi del baccalà non sono gli stessi della carne. 


Il merluzzo contiene infatti dei “grassi insaturi”: i famosi omega 3, detti anche “grassi buoni”, perché ripuliscono le arterie.A Napoli il baccalà è insomma di casa. Di insegne che recitano “baccalari” è tuttora piena la città. I napoletani (tutti i campani, per la precisione) sono i più forti consumatori di baccalà d’Italia; paese tra i maggiori consumatori nel mondo. 

A conferma della passione dei napoletani per il baccalà, che dura tutto l’anno, con un picco significativo a Natale, le più grandi aziende italiane di importazione e di conservazione del baccalà si trovano in Campania, alle pendici del Vesuvio (Somma Vesuviana). La storia dell’amore tra Napoli e il baccalà risale almeno al 1500. 

E ancora una volta, si vede come i napoletani siano un popolo capace di trovare soluzioni. A quel tempo, la Chiesa della controriforma imponeva di “mangiar magro”: aveva cioè proibito il consumo di carne nei giorni comandati. Di conseguenza, la domanda di pesce era molto cresciuta, ed esigeva una risposta che il pesce locale non era in grado di dare. 

Se a questo si aggiunge che intorno a Napoli, grazie alle sorgenti del fiume Sebèto, c’era acqua in abbondanza per dissalare il baccalà, e -al contrario - per reidratare lo stoccafisso, si capisce come ricorrere ai figli del merluzzo sia stato un bel modo di cavarsela. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, e sopra stoccafisso e baccalà, che entrano oggi in molte raffinate ricette della cucina napoletana. 

In loro onore è nata addirittura un centro studi: l’”Accademia dello Stoccafisso Reale di Norvegia”, che si propone - per statuto- di informare i consumatori delle grandi qualità dello stoccafisso, e di riportare alla luce le antiche ricette che lo prevedevano: la preparazione della coda (un segreto della cucina flegrea), e la pancetta di stoccafisso con patate. 



Senza dimenticare i tanti modi di cucinare il coroniello, la pancia dello stoccafisso tagliata a quadrati, unanimemente considerata la sua parte migliore. Quanto al baccalà, a Napoli è molto richiesto il mussillo: il filetto di baccalà, la parte dorsale del merluzzo. Il termine “mussillo” dipende dal fatto che il baccalà così lavorato assume l’aspetto di un piccolo “musso” (muso): dà l’idea di due labbra sottili.

Ad onta dell’ottima opinione che i napoletani (e i campani in genere) hanno del baccalà, sviluppata così “a naso”, (a nasello) anche per via dell’intenso odore che sprigiona, se a Napoli dovessero darvi del baccalà, accettatelo con piacere solo se è in un piatto: se invece vi viene detto, sappiate che non è un complimento.

“I’ che baccalà!” si esclama quando si incontra un individuo imbranato, ingessato, privo di spontaneità e di verve: qualità che a Napoli avercele è normale, esserne privi un delitto. Il “baccalà”, dove lo metti, là lo trovi: è privo di guizzi, e di spirito d’iniziativa. Una caratteristica psicologica che non piace a nessuno, anche se tutto sommato andrebbe apprezzata: il “baccalà” è in fondo un tipo affidabile, dal quale non ci si devono aspettare dei colpi di testa, o dei voltafaccia. 

Proprio come il baccalà da cui prende il nome: un alimento su cui si può contare sempre, perché si conserva a lungo, e non si deteriora. Un cibo che magari non riserverà particolari sorprese positive, ma nemmeno negative. Siamo d’accordo: non è particolarmente pregiato, non ha un bel profumo, ma sul baccalà (e su di un “baccalà”) si può sempre contare.




Preparazione del baccalà...



Di ricette per cucinare il merluzzo (e specialmente il baccalà) è pieno il mondo: in Portogallo - un tempo terminale del commercio di baccalà proveniente dal nord America - ce ne sono 366, per coprire una fame di baccalà che dura tutto l’anno, e tutti gli anni, bisestili compresi. Ma cominciamo dall’inizio: i merluzzi pescati vengono decapitati, sviscerati, lavati e passati in una leggera salamoia. Poi prendono strade diverse: alcuni divengono stoccafisso, altri baccalà.


Il baccalà, dal mare alla tavola...



Appena pescato, il merluzzo che sta per diventare baccalà viene aperto a libro, gli viene estratta la lisca dorsale, e viene ficcato in un barile contenente sale a strati. Qui rimane per tre settimane. Poi viene messo in vendita. I merluzzi destinati a diventare baccalà vengono dal Labrador e da Terranova; sono il baccalà morbido, assai salato (detto salted fish), e quello molto secco (chip fish).

In pescheria:
Per riconoscere un buon baccalà il fattore più importante è il sapore; elemento che non potete indagare sul banco del pescivendolo. Impiegate allora l’olfatto (l’odore sia penetrante, ma di pesce), e aguzzate la vista: la lunghezza del baccalà dev’essere non inferiore ai 40 centimetri, e lo spessore non inferiore ai 3 nel punto centrale. La pelle badate che sia molto chiara, e la polpa traslucida, morbida ed elastica. Fate particolare attenzione al colore della polpa: non dev’essere giallastra, ma bianca. Non però bianchissima: ciò denuncerebbe un truffaldino trattamento sbiancante con la calce.

A tavola:
Portato il baccalà a casa, provvederete a dissalarlo. Mettetelo in acqua, o meglio ancora sotto un filo d’acqua corrente. Se è di buona qualità, e non è troppo vecchio, basteranno 18-24 ore. Per capire se lo potete togliere dall’ammollo, assaggiatene una scaglia: se è morbida, e ben dissalata, si tiri fuori il baccalà, e lo si strizzi delicatamente. A questo punto si può cucinarlo.



Lo stoccafisso dal mare alla tavola...


I merluzzi che prendono la via dello stoccafisso vengono legati per le code e appesi a delle rastrelliere. Questo avviene a febbraio nei mari intorno alla Norvegia, dove l’aria è secca, fredda e pulitissima. I merluzzi restano ad essiccarsi e a rabbrividire fino a giugno. Solo allora arriva una figura temibile, una sorta di “uomo del monte” del merluzzo: il Selezionatore. 

Questi si aggira tra i pesci ormai secchi; li palpa, li annusa, li soppesa, e poi li sceglie. I migliori appartengono alla qualità “Ragno” (da Ragnar, il più famoso esportatore norvegese): sono bianchi, grossi e spessi. Gli stoccafissi selezionati vengono riuniti in balle, compressi con una pressa idraulica, legati con filo zincato e cuciti in sacchi di juta. 

Così conciati lasciano il luogo d’origine, per essere trasportati nei luoghi in cui viene richiesto. Molti prendono la via dell’Italia, uno dei primi mercato mondiale dello stoccafisso, con un consumo di 3.300 tonnellate annue.


In pescheria:
Le fasi su descritte sono certamente interessanti, ma in fondo potevate anche leggerle rapidamente. Come arriva il pesce in pescheria non dipende infatti da voi. L’acquisto è invece sotto la vostra personale responsabilità. Perciò, da questo momento in poi state bene attenti a quel che leggete, e cercate di memorizzarlo. 

Per evitare di farvi buggerare, dovrete sapere cosa chiedere al vostro stoccafisso. Quando è di prima scelta, lo stoccafisso dev’essere di grosse dimensioni; il collo e il ventre, aperti, devono apparire ben puliti, senza ecchimosi né macchie; la pelle deve avere un color grigio-chiaro, senza riflessi rossastri, e l’odore dev’essere immancabilmente molto intenso. La polpa, che sia secca e dura, ma non friabile.


Dalla pescheria alla tavola:
Una volta arrivati a casa col vostro stoccafisso, vi aspetta un lavoro delicato: la battitura. Dovete percuoterlo con un mazzuolo di legno, per sfibrarlo, senza però romperlo. Poi viene il momento dell’ammollo: lo stoccafisso, cioè il merluzzo essiccato, prima di mangiarlo va reidratato con acqua fredda abbondante. 

E possibilmente corrente: un filo d’acqua che dal rubinetto scenda direttamente sullo stoccafisso, ben adagiato in un recipiente non metallico. Per quanto tempo? Dipende dalla grossezza, dalla qualità, e da altro ancora: se è stato battuto a dovere, tre giorni in ammollo gli dovrebbero bastare. Come si fa a capire quando è il momento di toglierlo dall’acqua? Semplice: quando avrà moltiplicato per quattro o per cinque il proprio volume originario.

In tavola:
Lo stoccafisso è finalmente pronto per essere cucinato. Inutile dire che questo è il momento più delicato: se non sarete all’altezza, tutto il percorso dello stoccafisso, iniziato tanto tempo fa, finirà in niente. Perciò, cercate di impegnarvi al massimo, se non altro per rispetto a lui.<DA http://isolafelice.forumcommunity.net/?t=48103861>


Baccalà alla vicentina


Testo a cura di Alfredo Pelle. Giornalista e docente di storia della gastronomia. Redige articoli per numerosi periodici fra i quali Taste Vin, Zafferano, Gusto locale e Civiltà della Tavola. Collabora con il Gruppo l’Espresso e partecipa alla realizzazione della “Guida ai ristoranti”. Autore di varie pubblicazioni fra le quali “La cucina di bordo” dall’Editore Debatte. Partecipa in qualità di esperto a programmi tv e radio. Membro della Venerabile Confraternita del Baccalà alla Vicentina, della Fraglia del Torcolato di Breganze, dell’Accademia dei Bigolanti.



Quando, nel 1517, Martin Lutero, professore di esegesi biblica, affisse sui portali del Duomo di Weittemberg le sue 95 “tesi”, con le quali contrastava il potere papale, dichiarava che non si poteva supplire alla mancanza di fede con le opere, negava l’infallibilità dei Concili, squassò il mondo cattolico che corse, appena fu possibile (ma, comunque, un quarto di secolo dopo, nel 1545), ai ripari con il Concilio di Trento.


Fra i diversi “deliberata” a Trento si ritrovò la voglia di “candido” anche nella mensa e, come precisò lo scrittore Camporesi ne “ La carne impassibile”, l’orologio della chiesa si sincronizzò su quello della cucina e fu un ritornare al mangiar di magro, all’astinenza, ai digiuni… La cucina di magro diviene una sorta di viatico per l’anima, la cucina di precetto affina le tecniche ed i cibi divengono puri, beatificanti…


Un padre conciliare, Olao Magno, svedese ma ben acclimatato a Roma, con una operazione di marketing ante litteram scrisse un libricino, “Historia delle genti e della natura delle cose settentrionali” nel quale parlò dei prodotti del suo paese ed in particolare di un pesce detto “.. merlusia, essiccato ai venti freddi” che veniva normalmente venduto a”.. li mercanti germani, barattato con panni, cervogia, grano, legna ed altro”. Un meraviglioso commercio fu messo in moto da questo pesce secco, facilmente trasportabile, che sopportava una lunga durata, che veniva “ rimesso a nuovo” dopo una bella mazzolatura ed un lungo bagno in acqua, che non deperiva, che si trasportava come fosse legna!.


Ma chi, per primo, aveva messo le mani su questo pesce bastone, su questo stockfish?
Oltre 100 anni prima, nel 1432, il nobile veneziano Piero Querini con la sua “ cocca”, nave carica di vino cretese, di sacchi di pepe, spezie, profumi, broccati, lasciate le colonne d’Ercole con un vento gagliardo, si dirigeva verso i porti della Lega Anseatica, per fare lucroso commercio delle sue mercanzie. Ma  a “ … Calese ( Cadice) per colpa del pedota (nocchiero) ignorante, accostati alla bassa di San Pietro toccammo una roccia ed il timone uscì dalle cancare con grave pregiudizio…”. Erano 57 marinai e solo 12 calati in una scialuppa arrivarono alle isole Lofoten in Norvegia. Il Ramusio, scrittore del ‘500, scrisse di questo fatto marinaro e precisò che le Lofoten sono”.. in culo mundi”!


Il Querini trovò là due cose : pesci bastone stesi ad asciugare e donne molto ospitali, se è vero, come è vero che dopo neanche un anno nacquero una serie di bimbi moretti dagli occhi neri, talché ve ne è ancora traccia fra quelle distese di neve…


Portò il baccalà in Italia, il nostro Querini, ma non fu sufficientemente apprezzato: Venezia godeva di pesce fresco, sicché il mercato, allora, non decollò. Diverso, per tornare a noi, fu la diffusione del pesce dopo le direttive del Concilio di Trento: chiaramente i ricchi continuavano a mangiare trote, temoli, carpe o lucci, barbi o gamberi di fiume e le popolazioni sulle rive del mare il pescato, ma il popolo dell’entroterra trovò in quest’alimento risoluzione alle imposizioni religiose.


Il pesce bastone divenne pertanto merce preziosa ed appetita per scambi commerciali, barattato con qualsiasi altro prodotto, fonte di ricchezza per i paesi nordici. Ma questo predominio del “nord” si incrinò quando, per effetto di quelle variabili della natura di cui l’uomo è parte passiva, le balene che venivano pescate nei mari del Nord si inabissarono e lasciarono i pescatori baschi con le stive vuote. Non era, la balena, un meraviglioso prodotto della pesca: veniva trasformata in olio, mangiata sotto sale, venduta come “ lardo di magro”. Solo la lingua era preziosa, ma  ab antiquo, era riservata al Capitolo della Cattedrale di Bayonne. 


Fatta di necessità virtù i pescatori si diressero verso i banchi di Terranova e pescarono merluzzo in gran quantità. Fu la fine del pesce secco : il “plusvalore” che il pesce salato aveva in sé, sia per la salatura già effettuata, che per la possibilità di avere “ grattando” un bene prezioso qual era il sale, fece abbandonare, in gran parte, l’uso del secco a favore del nuovo prodotto, il “ baccaleos”.


Fu importante questo pesce, secco o salato, nella storia della gastronomia italiana? Ahimè, assolutamente no: non se ne parla mai nei grandi pranzi Rinascimentali. Ne parla, poco, a dire il vero, lo Scappi, cuoco segreto di Pio V ( segreto vuol dire cuoco personale, quello che gli faceva da mangiare tutti i giorni e non solo nei pranzi ufficiali) autore della più grande opera relativa al mondo della gastronomia del Rinascimento.


Bisogna però arrivare all’Artusi nel 1891 per avere alcune ricette nel suo  “ L’arte del mangiar bene e la scienza in cucina “. Ignora il baccalà alla vicentina e quello mantecato alla veneziana. Questa la storia del prodotto più amato dai vicentini, la cui ricetta è variamente interpretata ma solo nei particolari : latte, cipolla, formaggio sono presenti in tutte le ricette. C’è chi discute sulla “sardea “, chi dice che non ci vuole uno spicchio d’aglio, chi non vuole il burro ( ma, a dire il vero, ci va dentro tanto di quel latte che un poco di burro non vedo che male possa fare.


Com’è questo pesce?. Precisiamo che i merluzzi che peschiamo nel Mediterraneo sono tutt’altra cosa e per dimensione e per bontà delle carni. Il Nostro è il GADUS MORHUA, vive nel nord Atlantico, nel Pacifico, nei mari freddi. Sta bene fra lo 0 ed i 16 gradi al massimo, sta benone fra i 4 ed i 7.Taglia media fra i 50 e gli 80 cm. Nel 1940 ne è stato pescato uno di 24 anni d’età della lunghezza di 179 cm e del peso di 40 Kg. 


E’ fecondissimo . pensate che ogni femmina ha da mezzo milione a nove milioni di uova. Se solo l’uno per cento delle uova arrivasse a maturazione il mare sarebbe pieno di merluzzi. In realtà si calcola che solo un uovo su un milione arrivi a maturazione.. Una volta pescato si hanno due possibilità: seccarlo al vento del Nord ed ottenere così lo STOCCAFISSO, conservarlo con salagione per ricavare il BACCALA’. 


In Veneto però la parola stoccafisso non è usata: noi chiamiamo baccalà quello che tutto il mondo chiama stoccafisso.
L’assorbimento del sale marino impedisce lo sviluppo di batteri della putrefazione e nello stesso tempo permette l’insediamento di altri batteri che determinano la “ conservazione” del baccalà e l’afrore che gli è caratteristico. 


Una curiosità: le lingue e le guance del merluzzo sono stupende e vengono mangiate in loco. Il fegato di merluzzo, che per anni, ha tormentato i giovani ora viene utilizzato per la preparazione di patè alimentari. Le uova sono un’esca formidabile per la pesca delle sardine.
Depositaria della cultura del bacalà alla vicentina è la Venerabile Confraternita, nata vent’anni or sono, che ha selezionato una serie i ristoranti che cucinano bacalà conforme alla ricetta che è stata codificata dopo anni di “prove gastronomiche”!


Leggi ricetta

Leggi news storia baccalà
Leggi news storia stoccafisso 
Leggi news conserve Veneto <DA http://www.taccuinistorici.it/ita/news/moderna/pesci-conserve/Baccala-alla-vicentina.html>


* 본문의 내용과 (자료)사진은 문맥과 반드시 일치하지 않음.



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