Il Cibo nell'arte e nella Storia

Tante voci letterarie hanno testimoniato l’evoluzione della pizza, prima che diventasse cibo conosciuto e diffuso in tutto il mondo.
La pizza come cibo povero, veloce e “da strada” fa iniziale riferimento alla versione fritta. Erano pochi coloro che potevano permettersi un forno a legna, molti di più coloro che riuscivano a procurarsi un braciere e un catino di metallo in cui far scaldare l’olio. Molti di questi lavoravano da fornai e poi, al ritorno a casa, nei bassi delle zone più popolari di Napoli, arrotondavano con un secondo lavoro, friggendo porzioni di pasta lievitata e distribuendole ai passanti in cambio di pochi spiccioli. D’altronde i venditori di pesci, frittelle e pasta fritta già comparivano nelle pagine de “Il Viaggio in Italia” di Goethe:
«Sulle soglie delle case, grandi padelle erano poste su focolari improvvisati. Un garzone lavorava la pasta, un altro la manipolava e ne faceva ciambelle che gettava nell’olio fumante. Un terzo, vicino alla padella, ritraeva con un piccolo spiedo le ciambelle man mano ch’eran cotte e con un altro spiedo le passava a un quarto che le offriva agli astanti. (…) Vendono a tutto spiano, e sono migliaia quelli che se ne vanno portandosi il necessario per il pranzo o per la cena avvolto in un brandello di carta.»

Alexandre Dumas, l’autore de I Tre Moschettieri, visitò Napoli per la prima volta nel 1835. Ne rimase incantato, tanto da dedicare alla città partenopea, quasi 25 anni più tardi, diventato “Direttore degli scavi e dei musei cittadini”, scritti e descrizioni per un totale di quasi seicento pagine. Ogni aspetto più caratteristico della vita napoletana viene toccato e tra questi non manca il cibo: Dumas dedica alla pizza una descrizione puntuale e particolareggiata.
«La pizza è una specie di stiacciata come se ne fanno a Saint Denis: è di forma rotonda e si lavora come la pasta del pane. Varia nel diametro secondo il prezzo. Una pizza da due centesimi basta a un uomo, una pizza da due soldi deve satollare un’intera famiglia. A prima vista la pizza sembra un cibo semplice: sottoposta ad esame, apparirà un cibo complicato. La pizza è:
1) All’olio
2) Al lardo
3) Alla sugna
4) Al formaggio
5) Al pomodoro
6) Ai pesciolini
È il termometro gastronomico del mercato: aumenta o diminuisce il prezzo secondo il corso degli ingredienti suddetti, secondo l’abbondanza o la carestia dell’annata. Quando la pizza ai pesciolini costa mezzo grano, vuol dire che la pesca è stata buona; quando la pizza all’olio costa un grano significa che il raccolto è stato cattivo.»
Il paragrafo con cui conclude questa “cronaca della pizza” fa sorridere, perché si rifà ad un malinteso. Nel 1860 era già diffusa l’usanza della pizza ogg’ a otto, ovvero una pizza a credito che gli avventori più poveri potevano consumare subito, contando sugli otto giorni a seguire per trovare un lavoro e guadagnare i pochi spiccioli necessari a saldare il debito. A Dumas che chiese cosa pizza “ogg a otto” volesse significare, fu spiegato che erano pizze vecchie di otto giorni, e per questo più economiche. E lui così scrive:
«Altra cosa influisce sul costo della pizza: la sua maggiore o minore freschezza. Si capisce che non si può vendere la pizza del giorno prima allo stesso prezzo di quella della giornata, vi sono per le piccole borse pizze di una settimana, le quali possono sostituire, vantaggiosamente se non gradevolmente, la galletta di bordo.».
Nel menù di Dumas, ancora non compare quella che divenne la più celebre, la pizza Margherita, dalla storia assai famosa: il pomodoro non era ancora così diffuso, né sulla pasta né sulla pizza.

Altre testimonianze sul disco di pasta lievitata più famoso del mondo sono decisamente meno entusiaste e anche meno conosciute.
Matilde Serao, una delle prime donne ad aver fondato un giornale, greca di nascita ma napoletana di adozione, fa un’amarissima cronaca della propria città nel suo “Il Ventre di Napoli”. Il titolo dell’opera echeggia al più famoso “Il ventre di Parigi” di Emile Zola, ma nasce soprattutto dall’infelice frase del ministro Agostino Depretis che pronunciò, dopo l’ennesima epidemia di colera, scoppiata nel 1884, le testuali parole: «bisogna sventrare Napoli.» Da qui la risposta della Serao, che racconta cosa è davvero il ventre di Napoli e quali sono le abitudini dei suoi abitanti, abitudini che all’epoca dovevano essere sì rieducate, ma erano dovute soprattutto alla grande miseria e sovraffollamento. Nel capitolo 3, dedicato al cibo scrive:
«Il pizzaiuolo che ha bottega, nella notte, fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano: queste pizze divise in tanti settori da un soldo, sono affidate a un garzone, che le va a vendere in qualche angolo di strada, sovra un banchetto ambulante e lì resta quasi tutto il giorno, con questi settori di pizza che si gelano al freddo, che si ingialliscono al sole, mangiati dalle mosche. Vi sono anche delle fette di due centesimi, pei bimbi che vanno a scuola; quando la provvigione è finita, il pizzaiolo la rifornisce, sino a notte. Vi sono anche, per la notte, dei garzoni che portano sulla testa un grande scudo convesso di stagno, entro cui stanno queste fette di pizza e girano pei vicoli e danno un grido speciale, dicendo che la pizza l’hanno col pomidoro e con l’aglio, con la mozzarella e con le alici salate. Le povere donne sedute sullo scalino del basso, ne comprano e cenano, cioè pranzano, con questo soldo di pizza.»
Stessa descrizione poco incoraggiante si trova nel “Viaggio per l’Italia di Giannettino” di Carlo Collodi, il papà di Pinocchio, che in questa opera mette in bocca al bambino entusiaste parole per la città di Napoli ed altrettanto denigratorie nei confronti del suo cibo più celebre:
«Vuoi sapere cos’è la pizza? E’ una stiacciata di pasta di pane lievitata, e abbrustolita in forno, con sopra una salsa di ogni cosa un po’. Quel nero del pane abbrustolito, quel bianchiccio dell’aglio e dell’alice, quel giallo-verdacchio dell’olio e dell’erbucce soffritte e quei pezzetti rossi qua e là di pomidoro danno alla pizza un’aria di sudiciume complicato che sta benissimo in armonia con quello del venditore.»
In questo clima in gran parte denigratorio per un cibo così semplice e povero si situa l’importanza del giudizio della regina Margherita di Savoia che bella, in salute, schietta e per la prima volta in visita a Napoli, decretò la possibilità di dare fiducia alla pizza il successo futuro e imperituro anche fuori dai confini italiani.

Nel giugno del 1889, mentre la regina d’Italia si trovava in visita a Napoli, uno dei più famosi pizzaioli della città, Raffaele Esposito, fu invitato alla reggia di Capodimonte per farle assaggiare questa famosa pizza di cui tanto si parlava. Il pizzaiolo gliene preparò ben tre: una con l’olio, una con i pesciolini, e l’ultima con pomodoro, mozzarella e foglie di basilico, a richiamare il tricolore. Manco a dirlo, quest’ultima fu la pizza che la regina preferì e in suo onore venne battezzata pizza Margherita. La pizzeria di Raffaele Esposito esiste ancora oggi, dopo quasi 130 anni di storia della pizza Margherita, ha solo cambiato nome ed oggi si chiama Pizzeria Brandi; qui è ancora esposto, incorniciato, il ringraziamento giunto dal segretario della Regina:
«…le tre qualità di pizze da Lei confezionate per sua Maestà la Regina vennero trovate buonissime.»
Da quel momento inizia il successo.

Fonti bibliografiche e fotografiche:
John Dickie, Con gusto, Editori Laterza
Alberto Capatti, Massimo Montanari, La cucina italiana, Editori Laterza
Matilde Serao, Il Ventre di Napoli, Luca Torre Editore
http://www.vanvitelligourmet.com/storia-della-pizza.html
http://www.interviu.it/verace/pizza.htm
http://quasiumano.diodati.org/2008/02/napoli-meravigliosa-stralci-dal-viaggio.html
https://it.wikipedia.org, voci Alexandre Dumas, Carlo Collodi e Matilde Serao.
<DA Alessandra Giovanile / http://www.ifood.it/2015/07/la-storia-dello-street-food-la-pizza.html>